Di Harris in Harris

by Giorgio Bianchini
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La NFL in particolare modo, ma tutto il football americano in generale compie percorsi strani, districati, lunghi, lascia polvere di stelle lungo la via che porta all’immortalità di Canton, per poi ritrovarla decadi dopo, nello stesso stadio, nella stessa città, con gli stessi colori della jersey sporca di fango e sudore addosso.

Capita così che a Pittsburgh, città dell’acciaio, la “terrible towel” si ritrovi a sostenere ed ammirare un nuovo runningback, forte e agile che in varie movenze ricorda la “beast mode”.
Al suo secondo anno da “man of steel”, Najee Harris ha già fatto breccia nel cuore delle genti della città dei tre fiumi, e questi ultimi si attendono una grande annata da Harris, per supportare il tris di quarterback che Mike Tomlin dovrà saggiamente amministrare.
Lo scorso anno Najee Harris, da rookie semi sconosciuto ha spaccato le partite, dominato sulle corse e messo punti pesanti sui tabelloni degli stadi NFL, divenendo il giocatore offensivo con più “touches” dell’intera lega.

Najee Harris si tuffa in meta


Con il tipico fisico da runningback, 185 cm per 105 kg di forza e agilità, Harris ha macinato 1220 yards rush, 7 td rush, con addirittura 307 portate (solo Jonathan Taylor con 332, ne ha fatte più di lui nella scorsa season), aiutando il vecchio “Big Ben” a portare Pittsburgh al tanto agognato football giocato di gennaio, lasciando agli altri divano, birre ghiacciate e rimpianti.
Poco importa se difronte si sono schierati i mostri del Missouri, con il loro “bazooka” Mahomes a cannoneggiare per tutta la partita, gli Steelers avevano trovato, mentre il loro Ben li abbandonava, un giovane runningback con un cognome che risuona di leggenda, e no signori, non è un caso, nel football americano nulla capita o ricapita per caso.

Najee Harris

Najee Harris


La poesia che aleggia nelle pagine di storia di questo sport sta nuovamente per risvegliarsi, pronta per scrivere ancora una volta capitoli che traboccano di storia e futuro allo stesso tempo.

Torniamo indietro di quasi cinquant’anni, siamo all’inizio degli anni 70, più precisamente il primo febbraio 1972 e si sta per alzare il sipario sul tanto atteso NFL Draft. In quella notte il primo giro regalerà un contratto da professionista a 26 giovani giocatori provenienti dai college americani.
La pick 13 è in mano ai Pittsburgh Steelers e nessuno può immaginare cosa stavano per accoppiare gli Dei del Football.
Proveniente da Penn State e quindi tutto in famiglia, tutto in Pennsylvania, gli Steelers selezionano un runningback che risponde al nome di Franco Harris. Nome strano per un giovane afroamericano.
Il ragazzo quando corre col pallone in mano è un vero dominatore del gridiron, tanto che al primo anno conquista l’OROY, grazie a 1055 yds macinate e ben 10 touchdown, più uno su pass.
Franco fa già parte dell’arredo delle camere dei ragazzi di Pittsburgh, con i suoi poster mentre domina le difese avversarie.

Il "paisà" Franco Harris

Il “paisà” Franco Harris


Il suo nome come citato prima suscita curiosità, cosi viene fuori che il nuovo gioiello d’acciaio ha il padre afroamericano, ma la madre è italiana purosangue.
L’enorme comunità italo americana presente a Pittsburgh e in Pennsylvania ha un moto d’orgoglio, vede Franco come uno di loro, uno che ce l’ha fatta.
In un attimo si crea un movimento che passerà alla storia come il “Franco’s Italian ARMY”, dedicando un pensiero anche per il padre che aveva servito il paese nell’esercito, durante la WWII.
L’avvento di F. Harris portò di li a poco, grazie anche ad una difesa Steelers leggendaria, la “Steel Curtains”, a dominare gli anni 70 giocando e vincendo ben 4 superbowl (1974, 1975, 1978, 1979).
Nessuno a Pittsburgh, vedendo scegliere al draft un Harris come runningback, avrà associato il cognome al dominio degli anni 70?
Nessuno della “terrible towel” vedendo correre e farsi largo tra le linee, N. Harris, avrà fatto un pensiero a quella decade dominata dagli Steelers con F. Harris?

Il football americano ma soprattutto la NFL crea delle coincidenze da pelle d’oca, che si tifi per quella franchigia oppure no, non si può rimanere insensibile.
Associare Najee Harris a Franco Harris è ancora prematuro, ma nome e statistiche sembra dicano di si, infatti in week one, proprio domenica scorsa, Najee ha ricominciato dove aveva finito la scorsa season, con 1 touchdown pass, ed stata la sua prima volta, che ha aiutato Pittsburgh a vincere la difficile trasferta di division in Ohio, sponda Bengals.
Franco in 13 stagioni di NFL ha corso molto e i suoi numeri gli hanno aperto le porte della leggenda, ponendo il suo busto nella Hall of Fame nel 1990.
In Pennsylvania (12 anni) e un anno a Seattle, F. Harris ha macinato 12120 yds rush, grazie a ben 2949 portate.
Sono stati 91 i touchdown su corsa più 9 su pass, tutti con la jersey giallonera di Pittsburgh.
Tra questi 9 touchdown pass non si può non citare l’azione che descrive perfettamente la passione, la fatica, e la forza di volontà che differenziano un giocatore normale da una vera stella.
Forse il regalo di Natale più bello che Franco potesse fare al suo esercito di italoamericani.
E’ il 23 dicembre 1972 e la partita è di quelle che contano, che fanno tremare le gambe. Si gioca un divisional round nell’allora “Three River stadium” e di fronte ci sono gli Oakland Raiders.
Sotto di punteggio sul tabellone, a pochi secondi dalla fine della partita e senza time out, come nei peggiori finali dei film Hollywoodiani, il leggendario quarterback di Pittsburgh, Terry Bradshaw, lancia una bomba da 35 yds che dopo un fortunato rimpallo viene raccolta da Harris un attimo prima che la palla tocchi l’erba.
Touchdown, vittoria, rivalità spietata da quella ricezione in poi tra Raiders e Steelers (le due franchigie picchiavano duro in quegli anni) e Harris nella leggenda, con l’azione che la NFL Film dichiarerà come la migliore giocata di tutti mi tempi, tanto da venire soprannominata la “Immaculate Reception”.

La statua che commemora la “Immaculate Reception”

La statua che commemora la “Immaculate Reception”


A Pittsburgh hanno ancora negli occhi quella squadra e quella giocata, che segnò l’inizio del dominio Steelers negli anni 70, ed ora nella città delle fabbriche e dell’acciaio, le vecchie e giovani leve di tifosi hanno sotto gli occhi una maglia, con un nome storico cucito sopra il numero 22.
Un nome, quello di Harris, che riporta a vecchie glorie, quelle che uniscono città come Pittsburgh, che hanno poco da offrire come svago, e trovano nel football la loro unica fonte di gioia e orgoglio, dove si fatica 6 giorni su 7 in fabbrica ma la domenica c’è il football a risollevare il morale, ad unire la comunità.
Ora questa comunità spera di rivivere le emozioni di allora insieme al loro nuovo runningback che casualmente, incredibilmente porta il cognome Harris sulle spalle.

 

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